POCHI CRISTIANI O POCO CRISTIANI?

Relazione alla settimana alla settimana della Comunità – Bassano del Grappa

Prima domanda (per introdurre l’argomento):

Dal vostro punto di vista come leggete il titolo del tema di oggi. “Pochi cristiani o poco cristiani?”. E’ una domanda che ha un suo senso nel leggere la realtà sociale ed ecclesiale di oggi o nasconde atteggiamenti dal vostro punto di vista criticabili?

1. Pochi cristiani o poco cristiani?

Ponendomi di fronte alla domanda posta nel titolo di questo incontro, mi son detto: se rispondiamo “Pochi cristiani”, si aprono due scenari:

il primo è riconducibile alla colpevolizzazione del mondo, ossia a parlare “male” del mondo nel suo manifestarsi, oggi, come secolarizzazione, relativismo, egoismo, consumismo, indidualismo, ecc, ecc, ecc.

il secondo riguarda invece l’attivismo: siccome siamo in pochi, dobbiamo darci da fare per “reclutare” nuovi cristiani. Ciò significa nuove attività, nuovi metodi, nuova organizzazione, nuove strategie pastorali e di iniziazione cristiana, ecc.

D’altro canto, se rispondiamo “Poco cristiani”, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad altri due tipi di scenari:

la colpevolizzazione di noi stessi: il nostro peccato è che non ci diamo da fare abbastanza per curare la nostra fede, per pregare, per comportarci bene, ecc.

il secondo scenario, in questo caso, possiamo definirlo volontarismo: dobbiamo essere più cristiani, impegnarci di più, pregare di più, darci da fare, di più, ecc, ecc. ecc.

C’è un aspetto in particolare che accomuna questi due atteggiamenti: al centro della scena siamo sempre noi! Sul palcoscenico della vita siamo noi che decidiamo di chi è la colpa e siamo noi che decidiamo cosa bisogna fare.

Una prima indicazione: come possiamo toglierci dal centro della scena e lasciare il posto non a Dio, come se il finale della storia fosse che lui occupi tutto il mondo (Dio, con la creazione, ha deciso di ritirarsi dal mondo per lasciare spazio alle creature), ma alla relazione tra gli uomini e Dio affinchè proseguano il percorso di umanizzazione, un percorso sempre in bilico, sempre a rischio di regressione?

2. Dov’è Dio?

Il tiolo però mi ha suscitato una seconda considerazione. In questo momento storico, siamo tutti da tempo preoccupati di come sta andando il mondo, tanto da chiederci, magari nel silenzio del nostro cuore, dov’è finito Dio?

Il mio amico Don Flavio Grendele mi ha regalato una storiella Chassidica che voglio condividere con voi:

Un giovane discepolo si avvicina una mattina al suo vecchio maestro e gli dice: «Come mai, nei tempi antichi, Dio appariva spesso ai nostri padri, ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, a Mosè e a tanti altri? Oggi, invece, nessuno lo vede più?».

Il vecchio maestro rifletté a lungo, lisciandosi la barba con la mano, poi rispose:

«Perché noi non possiamo più chinarci abbastanza in basso».

Vorrei farvi notare che il vecchio maestro non dice che non RIUSCIAMO, bensì che non POSSIAMO.

Poichè l’uso di questo verbo mi stonava, ho chieso a un amico sacerdote se fosse sicuro della traduzione e lui mi ha dato questa risposta:

Direi che se avesse usato il verbo “riusciamo” avrebbe sollecitato uno sforzo in più, un più di impegno…

Usando invece il verbo “possiamo” vuol dire che bisogna trovare ciò che impedisce di piegarsi così in basso.

Non si tratta di sollecitare uno sforzo, ma togliere un impedimento… e il fare chiarezza dentro di sè non è cosa così facile.

Naturalmente altre risposte sono possibili”.

Come avrete capito, per aver sollevato quel dubbio, significa che anch’io faccio parte del gruppo di quelli che alla domanda di questa sera avrei tendenzialmente risposto che siamo “Poco cristiani” e del sottogruppo “è colpa mia”, ma anche dell’altro sottogruppo, “Devo darmi da fare”, devo fare uno sforzo maggiore, devo, devo, devo. Poi, poichè non ce la faccio, mi sento in colpa, mi deprimo e ogni tanto riemergo con nuovi devo, ecc. ecc. ecc.

Invece la chiave interpretativa sta proprio in quel verbo: NON POSSIAMO, c’è qualcosa che ce lo impedisce. Se proprio vogliamo fare qualcosa è cercare ciò che ci impedisce di vedere Dio. A quel punto ci sarà poco da fare perchè vedremo Dio.

Questa allora potrebbe essere una seconda indicazione: interrogarci su ciò che ci impedisce, oggi, di vedere Dio, senza partire dal presupposto che vi sia la colpa di qualcuno e che la strada da percorrere sia necessariamente il volontarismo o l’attivismo.

Seconda Domanda: (domanda aperta sulla nota)

Nella lettura della nota “Generare alla vita di fede” (cfr allegato), la quale analizza inizialmente la situazione ecclesiale della Chiesa di oggi e poi traccia delle linee di azione pastorale, quali aspetti vi sembrano interessanti da sottolineare e quali criticità avete colto?

Uscire sulle strade piene di smog?

Nella nota catechistico pastorale del nostro Vescovo, vi è una frase che mi ha colpito al riguardo dei percorsi di iniziazione:

Occorre uscire, essere sulle strade piene di smog e di polvere che i nostri contemporanei percorrono ogni giorno e lasciare che quella polvere, quello smog contaminino e modifichino i nostri percorsi”.

Mi son chiesto:

ma noi non viviamo già sulle strade piene di smog?

Voi dove vivete?

E la Parrocchia non vive anch’essa dentro lo smog?

Non mi risulta che sia dentro una campana di vetro. O forse pensa di esserlo?

Mi permetto di dire che forse vi è un errore di fondo nella frase del nostro Vescovo, almeno per come ho inteso io la sua affermazione: l’erroe sta nel continuare a pensare che esista una distinzione tra il mondo dentro alla Parrocchia e il mondo fuori dalla Parrocchia: il mondo dei cristiani è quello privo di smog, mentro quello fuori è il mondo con lo smog.

No! Noi siamo parte dello stesso mondo e partecipiamo, tutti i giorni, con le nostre scelte quotidiane, alla produzione di smog, sia ambientale sia relazionale.

Riconoscere che noi siamo già contaminati da questo smog perchè, assieme agli altri, ne siamo attivi produttori, ci permette di chiederci se esistono nel mondo, oltre alle contaminazioni cattive, anche quelle buone.

A questo riguardo, scriveva Etty Hillesum nel suo Diario:

Il nostro compito non è forse quello allora di “mantenere ben odorosa la nostra anima”, in mezzo a quelle esalazioni viziose?.

Solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani”.

Cioè vi sono delle contaminazioni che sono esalazioni viziose, lo smog di cui parla il Vescovo, che dobbiamo riconoscere per tener ben odorosa la nostra anima e che dobbiamo distinguere dalle contaminazioni che invece possono aiutarci a dare un buon odore alla nostra anima. E queste ultime non è detto che ci arrivino solo dai nostri simili, da quelli condividono con noi l’appartenenza alla Chiesa. Le possiamo trovare, tutti i giorni, nel mondo.

Il Vescovo continua dicendo: “L’ultimo passo richiede un’opera di decentramento delle nostre parrocchie, passando dall’accoglienza al lasciarsi accogliere, facendosi compagni di viaggi”.

Vedete: anche lui parla di decentramento, che significa, come abbiamo detto prima, togliersi dal centro della scena e passare dall’accogliere al lasciarsi accogliere. Bellissimo!

Però … anche il Vescovo mi fa uno scivolone alla fine della frase … perchè dice “facendosi compagni di viaggio”. Ritorna l’IO protagonista, l’IO del cristiano che si fa compagno di viaggio degli altri.

E se invece il tema fosse lasciare che anche gli “altri” ci siano compagni di viaggio? Quegli altri che non fanno parte dei “nostri”?

Non vi nascondo che si tratta di un viaggio molto difficile e per certi versi rischioso. Il rischio è perdersi. Ma è un rischio che è presente in ogni caso e in ogni momento.

Però questo avvicinarsi al mondo mi sembra assomigli all’esperienza dei discepoli di Emmaus: chi sono questi due discepoli? Di uno si dice che è Cleopa, ma dell’altro non sappiamo niente, nemmeno come si chiama.

Sappiamo solo che entrambi erano senza speranza, delusi dal fatto che Gesù non avesse proprio per niente liberato Israele. Che poi è la nostra stessa delusione che qualche volta proviamo quando le cose non vanno come noi vorremmo.

Ma ciò che ci interessa è che, mentre loro convesavano e discutevano, si avvicina a loro una persona: era Gesù: loro lo vedono, ma non lo riconoscono.

Questo significa che non basta essere sulle strade piene di smog: potremmo esserci ma non riconoscere Gesù nelle persone che incontriamo. Soprattutto se pensiamo di essere noi il Gesù che incontra gli altri, che si fa compagno di viaggio, che deve convertire, che deve trovare nuovi cristiani, che deve cambiare gli altri e il mondo.

Quando noi leggiamo la storia di Gesù nei Vangeli, solitamente la prospettiva è quella di ammirare tutto quello che lui ha fatto per gli altri, per aiutarli a riconoscere Dio. E’ una lettura “pedagogica”, di come Gesù educa le persone mettendole alla prova (si parla infatti di “Teologia della messa alla prova).

In realtà non è Dio che ti mette alla prova, ma è la vita, è il modo di stare dentro alla vita che offre delle possibilità di conversione. E’ possibile quindi assumere un’altra prospettiva nella lettura dei Vangeli: i Vangeli sono anche la storia di come Gesù, nell’incontro con le persone, dentro alla vita, alla storia, si modella, cambia, capisce progressivamente chi è suo Padre e qual è la sua missione.

Pensata alla durezza dell’incontro con la donna Cananea (Mt 15, 21-28). Collochiamo questo incontro entro il contesto: i capi religiosi non vogliono Gesù; la folla ha grandi dubbi; i discepoli vacillano nella fede. Per Gesù è un momento difficile. Rompe i confini ed entra in un territorio straniero, nella zona di Tiro e Sidone, città pagane.

La Cananea, donna e per giunta straniera, gli grida “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. Ma egli non le rivolge neppure una parola. I suoi discepoli lo implorano di esaudirla perchè continuava a disturbarli. E lui risponde che non è stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele.

La donna si prostra davanti a lui, che è il gesto dell’adorazione, e gli chiede aiuto. E lui cosa fa? Le risponde che non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. Non ne hanno il diritto.

Ma lei da una risposta che sconvolge Gesù. “E’ vero Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”, che è come dire, “Io non so come risolvere queste cose, ma so che Dio si inventa qualcosa anche per i più piccoli”.

A Gesù non rimane che riconoscere la sua grande fede e guarire la figlia.

Ma il gran finale è che lui è cambiato! E chi l’ha cambiato? Una donna del mondo, di un mondo fuori dal suo mondo.

Quindi una terza indicazione potrebbe essere: quali occasioni come Parrocchie stiamo creando per incontrare le persone nel mondo affinchè ci aiutino a crescere nella nostra fede e ci accompagnino nel viaggio della vita?

Terza domanda:

Nella lettera del nostro vescovo (testimoni della gioia cfr allegato) si parla di rendere attraenti le attività che le nostre parrocchie propongono (l’espressione è: il problema non è nell’eccesso delle attività, ma le attività vissute male … senza una spiritualità che le renda desiderabili). Come rendere desiderabile e attraente oggi il Vangelo agli occhi degli uomini? e come vedete voi l’idea della gioia nel credente?

Testimoni?

Una prima osservazione vorrei farla rispetto alla parole “testimoni”. Ho sempre pensato che noi non dobbiamo per niente preoccuparci di essere testimoni e questo in linea con quanto detto in precedenza: fare i testimoni ci mantiene ancora nella logica di essere al centro della scena.

Quando mi è capitato di fare questa affermazione in ambito ecclesiale, mi hanno sempre guardato male perchè non mi capivano. Sicuramente questo è accaduto perchè ero io che non risucivo a trovare le parole giuste per esprimere questa idea.

Fortunatamente ho letto un testo dello psicoanalista Massimo Recalcati, dal titolo La forza del desiderio, il quale afferma:

I testimoni che vogliono fare i testimoni sono cattivi testimoni, mentre si può dire: “Ho trovato un testimone” solo retroattivamente.

Ecco il punto: non posso entrare in relazione con l’altro con l’obiettivo di testimoniare quello in cui credo nella speranza che questo valore, questo contenuto, questo stile di vita, questa fede, sia riconosciuta e fatta propria dall’altro. Decidere di fare i testimoni è una delle più pericolose derive di un modo distorto di vedere l’educazione.

Quello che posso fare è cercare di vivere secondo quello che io considero un valore, un contento, uno certo stile di vita, secondo la mia fede. Vivendo in questo mondo do un senso alla mia vita.

Forse, l’altro, un giorno, riconoscerà in questo mio modo di vivere, una testimonianza, qualcosa che può partecipare alla costruzione del senso della sua vita, che potrà far parte del senso che egli attribuisce alla sua vita.

Ho una storia con Dio

Se noi non dobbiamo preoccuparci di essere testimoni, non dobbiamo nemmeno preoccuparci di testimoniare la gioia. A meno che non traduciamo il termine gioia con passione.

Provo a spiegarmi leggendovi una piccola poesia che ho scritto dopo aver letto il libro di Luciano Manicardi, “Raccontami una storia”:

Ho scoperto che Dio ha una “storia” con me …

Va beh, lo ammetto, anch’io ho una “storia” con Dio.

Insomma, io e Dio abbiamo una “storia”.

Da tempo …

Come tutte le “storie”, le relazioni, anche la storia con Dio ha i suoi alti e i sui bassi, momenti di gioa e pace e altri di conflitto e tradimento perchè, la cosa incredibile, è che questo Dio in cui crediamo è talmente dentro alla storia che a volte ha le sembianze di mia moglie, altre dei miei figli, altre dei miei familiari, altre dei miei vicini di casa, altre ancora delle persone che incontro al lavoro o occasionalmente per strada.

E se non sto attento, o sono troppo attento a me stesso o a fare il testimone, nemmeno riesco a riconoscere Dio in loro, come è accaduto ai discepoli di Emmaus!

Vivere con gioia vuol dire vivere con passione questi incontri, lasciando che siano occasioni di conversione. La passione è quindi stare attenti a non perdersi l’occasione che questi incontri ti danno nel procedere verso il tuo percorso di umanizzazione.

Quarta domanda: per Marco

Occupandoti di famiglie affidatarie (come l’associazione rete famiglie aperte) o di famiglie problematiche, negli ultimi tempi hai riflettuto sulla figura del padre, una figura che tu hai definito in questo testo “in crisi” nel corso di un passaggio generazionale che lo ha visto prima “capo famiglia” e oggi, nel migliore dei casi, assistente. Trovi che nel contesto di oggi ci siano dei segnali di risveglio del ruolo maschile e di reinvenzione dell’essere padre o siamo ancora al “palo”?

Non posso negare che da quando ho proposto lei miei riflessioni sulla figura del padre nella pubblicazione “Padre dove vai?” ho visto che qualcosa, seppur a fatica, seppur ancora in maniera incerta, sta cambiando.

Sta nascendo una nuova generazione di padri che stanno cercando di essere padri non per contrapporsi a come lo hanno visto fare dai loro padri, nemmeno assumendo le sembianze delle loro compagne, madri dei loro figli e neppure correndo dietro in maniera ansiosa a tutte le teorie pedagogiche o psicologiche con cui veniamo bombardati.

Ma vorrei però soffermarvi con voi su un aspetto che mi sembra ancora carente. Nel mio libro affermo che uno dei compiti del padre è quello di presidiare il futuro e oggi questo coincide con la creazione di legami di comunità.

Ho letto il discorso di Papa Francesco ai partecipanti all’incontro mondiale dei Movimenti Popolari, fatto il 20 ottobre 2014.

Vi è nel testo, assai ricco, un passaggio a mio straordinario:

Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una cultura popolare, lì lo SPAZIO PUBBLICO NON E’ UN MERO LUOGO DI TRANSITO MA UN’ESTENSIONE DELLA PROPRIA CASA, un luogo dove generare vincoli con il vicinato”.

Ecco: noi padri, che a volte quando usciamo di casa agiamo sfruttando, distruggendo, inquinando, depredando, ecc. lo spazio pubblico con le nostre scelte quotidiane, dobbiamo riscoprire l’idea dello spazio pubblico come estensione della propria casa.

E quindi di uno spazio di cui dobbiamo prenderci cura in quanto parte del mondo nel quale i nostri figli crescono.

In linea con il discorso di questa sera, lo spazio pubblico è una parte fondamentale di quel creato che Dio, rimpicciolendo, ci ha lasciato affinchè vivessimo la nostra umanità in libertà.

Credo che questo sia un passaggio che i padri di oggi devono ancora fare.

Anche quei pochi e poco cristiani!

10 novembre 2014

Marco Tuggia

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